Gli incontri del festival Collega-menti dedicati al tema dell’abitare
La forma delle città del futuro? Lo spazio pubblico al centro per ricostruire le relazioni
La Varra: “La dimensione urbana delle piccole e medie città soffre la mancanza di un immaginario di riferimento”
Viganò: “Dalla gerarchia all’orizzontalità: ripensare la città per ridurre le dipendenze”
Isidori: “Spostarsi può diventare occasione di relazione e non solo di transito”
Parisi: “A Tokyo l’immaginario urbano è realistico: la città sa dove vuole andare”

Metropoli e paesi, diversi per natura ma sempre più interconnessi, sono parte di un’unica rete che contribuisce a costruire – o meglio, ricostruire – le città del futuro. Al festival Collega-menti dell’Università di Udine, quattro voci autorevoli dell’architettura e dell’urbanistica, provenienti da contesti geografici e sociali differenti, hanno provato a delineare una “ricetta” per interpretare le trasformazioni urbane e immaginare le città di domani.
Gli interventi dell’architetto Francesco Isidori, cofondatore dello studio Labics, di Giovanni La Varra, docente di Progettazione a Udine, dell’urbanista di fama internazionale Paola Viganò e – in collegamento da Tokyo – di Flavio Parisi, italianista friulano che vive in Giappone da vent’anni, hanno posto al centro del dibattito un tema comune: la necessità di restituire allo spazio pubblico un ruolo fondamentale per la vita delle comunità.
Isidori ha sottolineato come “le città si siano sempre trasformate nel tempo, ma oggi assistiamo a una vera e propria polverizzazione della forma urbana: architettura ed edilizia sono spesso isolate in spazi vuoti, privi di identità. Questo ha conseguenze sulla percezione dello spazio pubblico, che perde qualità e intensità. In passato era il luogo del commercio, dell’incontro, della connessione. Oggi, molte periferie non hanno più spazi di relazione. L’obiettivo deve essere riscrivere le città per riportare lo spazio pubblico al centro”.
Per Viganò, la strada passa attraverso un ribaltamento di prospettiva: “Dobbiamo lavorare sull’orizzontalità più che sulla gerarchia che ha caratterizzato finora il progetto urbano. In questo modo si riduce la dipendenza da pochi poli centrali e si evita che intere aree diventino solo dormitori. Occorre anche superare la contrapposizione stereotipata tra metropoli problematica e paese idilliaco: la realtà è più complessa. Il passaggio tra città e paesi diventa fluido se in mezzo inseriamo i luoghi della cultura e della socialità, capaci di intensificare le relazioni. Sempre più spesso emergono vere e proprie metropoli di villaggi, concetto che si lega strettamente alla giustizia ambientale e sociale”.
Su questo piano si inserisce la riflessione di La Varra: “Le piccole e medie città italiane soffrono soprattutto per la mancanza di un immaginario di riferimento. Senza un orizzonte chiaro, è difficile immaginare percorsi di crescita. Spesso si tenta di importare modelli di città globali, come Milano o New York, unicamente orientati alla crescita e allo sviluppo ma inadeguati ai nostri contesti. Al contrario, dovremmo coltivare la vitalità culturale locale che va riconosciuta e inserita in una rete territoriale. È utile anche guardare con più attenzione a come il nostro territorio viene visto da chi viene da lontano, da altri Paesi, senza però importare modelli estranei e improduttivi”.
Dal Giappone, Parisi ha raccontato un’esperienza diversa: “L’immaginario di Tokyo è molto realistico, e questo è un elemento importante della cultura giapponese, che sa bene dove si trova e dove vuole andare. Dopo la distruzione della guerra, Tokyo ha trasformato la tragedia in un’occasione per ripensare i collegamenti. Qui possedere un’auto privata è quasi impensabile: i trasporti pubblici sono eccellenti, ma in cambio si rinuncia allo spazio privato dell’auto e lo si condivide con altri pendolari, spesso in condizioni di affollamento”.
Il tema della mobilità è stato ripreso da Isidori, che ha invitato a un cambio di paradigma: “Nelle grandi città italiane il problema degli spostamenti resta cruciale, ma non può più ridursi alla velocità. Conta la qualità della mobilità: spostarsi a piedi o in bici significa trasformare il tragitto in un’occasione di relazione, restituendo le strade ai pedoni. Non esistono modelli universali: ogni città deve trovare la propria strada, ma in generale la mobilità deve diventare occasione di fruizione lenta, con più verde e superfici permeabili al posto dell’asfalto”.